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Fantasia e realtà

di Stefano Bidetti

Parlando di cinema, di letteratura, di fiction TV e, soprattutto, di fumetto, il tema della distanza esistente tra fantasia e realtà è sicuramente abusato. Nel senso che la maggiore o minore aderenza di quanto si racconta a fatti reali crea di sicuro un ventaglio infinito di sfumature in cui ovviamente uno scrittore/sceneggiatore può giocare a suo piacimento. Ho già toccato in diverse sedi questo argomento, magari solo en passant, ma voglio ribadire che personalmente lo ritengo un gioco pericoloso e alla fine controproducente, e vorrei provare a spiegarne il perché.
Va premesso che ovviamente il filone che si segue nella propria scrittura incide non poco sul tema in discussione, perché scrivere un libro di storia, un romanzo storico o un fantasy per definizione significa avere un rapporto con la realtà completamente diverso. Ma ciò su cui mi voglio concentrare è un elemento che secondo me non deve mai venir meno nell’inventare delle storie, soprattutto quando poi parliamo di fumetto. Mi riferisco alla fantasia. Cioè alla capacità di fornire dei sostegni al volo immaginifico del lettore, che – anche se parliamo di storie realistiche - deve poter immaginare mille mondi possibili, deve far affidamento sul fatto che non esistono storie scontate, finali predeterminati, e che la coerenza attiene soltanto alla capacità dello scrittore di scrivere bene la propria storia.
In sostanza – in quel ventaglio variegato di cui parlavo – mi verrebbe di provare a distinguere tre differenti grandi categorie di modalità nel raccontare una storia.

1 – La fantasia più libera
Personalmente mi riferisco soprattutto al fumetto, ma è ovvio che questo discorso si estende anche agli altri filoni della narrazione. Se nello scrivere una storia l’autore ha la massima libertà di utilizzare personaggi, luoghi, situazioni, plausibili ma non necessariamente corrispondenti a situazioni vere, ecco che la sua capacità di costruire caratteri credibili e coerenti, situazioni e conseguenze realistiche ma imprevedibili ed evoluzioni sempre molto aperte a nuovi sviluppi garantirà una freschezza costante delle sue storie; e finché la sua vena non si dovesse inaridire, i suoi lettori potranno fare affidamento sul famoso sense of wonder rappresentato appunto dalla predisposizione a essere sempre conquistati da qualcosa in grado di stupire, incuriosire, affascinare.

2 – L’ inserimento di alcuni fatti reali o personaggi veramente esistiti
È ovvio che la tentazione di fare ogni tanto riferimento a qualcosa di reale, di concreto, di effettivamente esistente nella memoria di chi legge, perché personalmente vissuto o perché comunque appreso dai libri di storia, è forte. Sia perché dà all’autore la possibilità di dare sfoggio delle proprie conoscenze, o della propria capacità di documentazione; sia perché gli consente di avvalorare con alcune note di verità quello che invece di creativo e fantasioso ha pensato di inserire nel proprio racconto; sia perché può così fornire al lettore una chiave di lettura leggermente diversa di cose che magari pensava di conoscere. Ecco allora che da leggende più o meno vere si passa agli aneddoti di fatti avvenuti realmente, a personaggi appartenenti probabilmente più alle favole si affiancano nomi di persone concretamente vissute, a luoghi geografici inventati si alternano invece città e paesaggi descritti con corrispondenza al vero. È un gioco che lascia aperto il dubbio, che fa sempre porre al lettore la domanda: ma sarà veramente andata così? Un personaggio reale può anche essere romanzato e risultare diverso da quanto fosse stato nella sua vita reale, il tutto a favore della fruibilità e in nome della libertà di interpretazione nell’arte dello scrivere.

3 - Adesione il più possibile ai fatti reali
Quando però si vuole spingere il gioco al massimo, sempre che si tratti di narrativa e non di biografie storiche vere e proprie, ecco che allora lo scrittore si pone il problema di verificare tutto, di raccontare le cose come veramente si sono svolte, di descrivere i personaggi della propria storia come effettivamente erano nella realtà. Questo – come dicevo – diventa un gioco pericoloso, perché allora non c’è limite alla necessità di essere veritieri. O, peggio ancora, di inserire forzatamente quanti più fatti e personaggi reali possibile accanto magari a un personaggio di fantasia. Ecco allora che tutto si ingessa, che non esiste più la possibilità di “creare” un protagonista, che invece sarà costretto, a prescindere dall’autore che scrive, a essere esattamente così, a fare esattamente quelle cose, a dire esattamente quelle parole. Se io ambiento una storia in un periodo di cento anni fa, devo ovviamente tenere conto di quale fosse la vita in quel periodo, quali i mezzi di comunicazione, quali i mezzi di trasporto, cosa si metteva sulle tavole, come ci si vestiva, cosa era già stato inventato e cosa no, cosa pensavano le persone, e così via. Ma se io mi metto a pensare chi era il personaggio politico in quel momento, quale legge veniva discussa, quale scienziato dominava la scena e cosa diceva, di cosa si parlava negli ambienti che io voglio tratteggiare, come era l’architettura della città in cui sto ambientando la storia, quali erano i fatti spiccioli che ne caratterizzavano le giornate e così via, io non faccio altro che appunto ingessare sempre di più la narrazione che finisce, portando le cose alle estreme conseguenze, per raccontare i fatti per come si sono svolti piuttosto che a lasciare spazio alla fantasia. E allora – come ho già detto in un altro articolo – tanto varrebbe invitare il lettore a sfogliarsi un libro di storia!
Mi viene un esempio da fare. La serie TV Strange things aveva dato vita a un’idea fantastica, cioè un mondo a rovescio, che rappresentava in sostanza il negativo di quello reale. Le prime due stagioni erano state meravigliose, nel raccontare la lotta per impedire al mondo negativo di entrare in contatto con quello a tutti conosciuto. Progressivamente il mondo negativo è stato trasformato in qualcosa di più tangibile e comprensibile, cioè semplicemente un mondo esistente nel sottosuolo, in cui però mostri e creature strane – a mio parere - non avevano neanche più senso di esistere. Diventavano gli Uomini talpa dei Fantastici 4! E infatti ho smesso di seguire la serie.
E lo stesso discorso vale per i fumetti. Tex e Zagor (ma di certo il discorso potrebbe essere fatto per tanti altri characters) sono due personaggi di fantasia, attorno ai quali si è inizialmente costruito un mondo realistico, ma che poi hanno sempre agito nel proprio ambito, conservando coerenza e credibilità. Ma se a un certo punto viene fuori il desiderio, che gradualmente diventa un obbligo, di prevedere date precise, corrispondenze al presidente americano esistente in qual momento, obbedienza ai fatti reali avvenuti in tale luogo e in tale data, la fantasia muore. Se io voglio raccontare ad esempio un terremoto e poi però il Pierino di turno mi dice “Eh no, mio caro, perché nel 1849 non c’è stato alcun terremoto! Semmai devi spostare la vicenda di dieci anni più tardi e trasferirla a 1400 chilometri da dove la volevi scrivere!”, allora - dico io – che senso ha la semplice idea di “inventare una storia”?
Oppure vorrei fare un altro esempio. Se si legge la trasposizione a fumetti di un film, il risultato è sempre deludente. Chi dice il contrario mente, perché si lascia affascinare soltanto dalla capacità del disegnatore di rendere la somiglianza con gli attori della pellicola. Ma quella somiglianza vuol dire “copiare”, non creare. Vuol dire riprodurre fatti e personaggi dati. Io non ho mai trovato accattivanti le versioni a fumetti di film che ho amato proprio perché la sensazione di fittizio, di forzato, era prevalente.
Se io leggo una storia di Zagor, sinceramente, non me ne frega niente se il presidente con cui aveva a che fare era Monroe, Adams, Jackson o Buchanan, ognuno dei quali poi ha degli anni precisi di riferimento quanto al proprio mandato e una serie di altri vincoli che dovrebbero a quel punto condizionare la storia che vorrei leggere in santa pace! Mi viene da ripensare a quei meravigliosi fumetti anni ’50 e ’60 in cui sicuramente si sbagliavano (o magari addirittura si inventavano) i nomi delle tribù indiane e il loro modo di vestirsi, si sbagliavano le armi e i nomi delle città e così via, ma che erano dinamici e consentivano ai lettori di DIVERTIRSI! Ora ci chiediamo perché bambini e ragazzi non leggono più i fumetti. Certo, se il livello diventa cervellotico e dotto, è difficile che loro ne vengano attratti! E quindi uno dei tanti motivi potrebbe essere proprio questo.
In conclusione, attenendomi al fumetto che è quanto conosco meglio, voglio ribadire il fatto che la componente più importante è sempre e comunque la fantasia. Altrimenti non ci stupiamo se poi il fumetto muore. Non sarà certo questa l’unica ragione, ma secondo me incide tanto!


postato il 11/11/2022 alle ore 23:30

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